Merito di tutti, merito di nessuno

Nella percezione comune – sia dei propri abitanti che all’estero – l’Italia è da molto tempo vista come la culla di un sistema di tipo baronale o dinastico in cui il successo, la progressione di carriera, l’ottenimento di  incarichi di responsabilità sono determinati dal proprio network di conoscenze più che dalle proprie capacità. In una parola, un sistema clientelare quasi completamente impermeabile ai criteri meritocratici tipici, ad esempio, del mondo anglosassone.

In questi giorni di pre-campagna elettorale si è fatto un gran parlare, in maniera trasversale a più schieramenti, dell’idea del merito come criterio per la selezione dei candidati alle prossime elezioni. Così, ad esempio, leggiamo

«Più spazio al merito significa una società più dinamica, più innovativa e con meno diseguaglianze sociali. Una società aperta significa che tutte le posizioni sono contendibili e non acquisite per sempre. Vuol dire aprire spazi a chi ha più voglia di fare o a chi ha idee nuove, senza corsie preferenziali o rendite di posizione, senza privilegi» (Agenda Monti, p.19)

oppure

«la nostra rivoluzione è una società aperta. Al talento, alle opportunità, al merito» (campagna di FareLazio per Fermare il Declino, gen 2013)

o ancora

«il merito non è fatto solo dalla competenza, ma anche ed in misura determinante da persone che ogni giorno si impegnano nel lavoro, qualunque sia» (Rinascimento Italiano, Lista del Merito, 2 gen 2013, Facebook).

Anche il M5S inserisce il merito nel suo programma (p.13) curiosamente solo per ciò che riguarda la sanità, e così pure in formazioni di vocazione più tradizionale, come “Fratelli d’Italia” che come parole d’ordine sceglie

“Onestà, partecipazione, meritocrazia” (La Russa su Repubblica, 20 dic 2012).

Fin qui più o meno tutti d’accordo, ma quando si tratta di definire cosa sia il merito, ecco che cala un imbarazzante silenzio di cui non è difficile immaginare il motivo: se neanche il manifesto della tecnocrazia illuminata (leggasi Agenda Monti) ha avuto il coraggio di legare esplicitamente il merito alla competenza, chi sono Crosetto, Giannino o Artom per farlo? Anzi, è vero il contrario, se Grillo nel suo “messaggio di fine anno” gridato nella penombra del suo appartamento sotto un vistoso albero di Natale ha detto «che cosa c’è di più bello di mandare in parlamento una madre di famiglia con tre figli?», come a dire che  la competenza può essere gradita (forse) ma non è certamente richiesta.

Questa malcelata ritrosia nell’affermare chiaramente che la competenza tecnica non costituisca esattamente un optional quando si tratta di approdare al teatro nel quale si producono le leggi che regolano la vita di tutti i cittadini, risiede a mio avviso in una incomprensione di fondo del meccanismo democratico che si è fatta strada nell’immaginario collettivo, serpeggiando nel subconscio degli italiani soprattutto nell’ultimo quarantennio.

Questo misunderstanding sembra risiedere nel graduale slittamento semantico che ha portato l’idea di rappresentatività a coincidere con quella della decisionalità: nell’idea repubblicana, infatti, dovrebbero essere i partiti a farsi carico sia della rappresentatività della loro porzione elettorale che dell’espressione di una classe dirigente dotata degli strumenti operativi necessari per tradurre tale rappresentatività in un’agenda politica. La perduta credibilità dei partiti negli ultimi decenni, tuttavia, ha condotto all’idea che sia possibile, e forse auspicabile, bypassare la mediazione dei partiti e cercare di rompere il muro che si era creato tra cittadinanza e istituzioni con una vigorosa iniezione di partecipazione popolare nell’istituzione stessa. Di qui il grillismo, la cui finalità dichiarata è quella di instaurare un meccanismo basato sulla democrazia diretta.

Ora, se si può in fondo convenire che i partiti abbiano abusato della loro posizione per creare posizioni di privilegio e di impermeabilità nei confronti della cittadinanza, non può sfuggire a nessuno che la democrazia diretta comporta sua ipsa natura l’abolizione di ogni principio di competenza. In altre parole, è come se per far costruire un ponte non si sentisse più la necessità di chiamarre un ingegnere ma si facessero progetti e calcoli del cemento armato per alzata di mano di tutti gli operai. Anche producendo un serio impegno di immaginazione, difficilmente si può concepire un disegno tanto assurdo e pericoloso.

Sic stantibus rebus, è del tutto ovvio che l’unico a dire la verità in questo tema sia proprio Grillo, per quanto totalmente inaccettabile sia la sua proposta. Tutti gli altri non riescono su questo punto a mantenere un elevato livello di verità, certamente per il timore di essere giudicati come elitaristi, sentimento più che fondato per le liste della galassia montiana che infatti hanno ritenuto (excusatio non petita?) di dover candidare Valentina Vezzali, come se il Parlamento sentisse una urgente necessità di fiorettisti.

Solo poche settimane fa, scrivevo che

«competenza e merito sono due facce della stessa medaglia, e riteniamo che il merito così declinato non sminuisca la democrazia ma, al contrario, la rafforzi, portando con sé gli strumenti cognitivi necessari per agire in autonomia e nel rispetto della propria coscienza» (Riformare a partire dal merito, Atti della 1a Convention Nazionale di Rinascimento Italiano, 15/12/2012).

Sono parole in cui è difficile non riconoscersi eppure che nessuno ha il coraggio di pronunciare a motivo di un mero calcolo elettorale.

Ancora una volta è il caso di dire amicus Plato, sed magis amica veritas.

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