Scegliamoci la Repubblica: riflessioni a caldo

Torno ora dall’evento organizzato dal prof. Giovanni Guzzetta dal titolo “Scegliamoci la Repubblica” che ruota intorno a un DDL di iniziativa popolare per una riforma costituzionale volta all’introduzione di una forma di semi-presidenzialismo sul modello francese. Tra gli oratori anche Angelo Panebianco, Adolfo Urso, Stefania Craxi, solo per citare i più noti.

Le premesse le conosciamo, e credo siano ormai condivise in maniera trasversale: lo stato di prolungata paralisi istituzionale – associato ora a una singolare debolezza dei partiti – è dovuto in larga parte all’obsolescenza di una Costituzione che è oggi largamente superata sia negli intenti che nelle forme istituzionali. La carta costituzionale non è un tabù verso il quale ostentare un religioso ossequio e una sacra intangibilità, ma uno strumento (si potrebbe dire lo strumento) al servizio dei cittadini per regolare la vita democratica, ma come ogni strumento “vivo”, deve rappresentare efficacemente il mondo che vuole regolare. In quest’ottica, mancate le principali condizioni che hanno determinato i lineamenti essenziali della carta (e cioè l’antagonismo post-bellico tra i due lati della cortina di ferro da un lato e la paura della ricaduta nell’autoritarismo dall’altro) è del tutto conseguente che la Costituzione vada sostanzialmente riveduta.

A queste premesse largamente condivise, Angelo Panebianco ha aggiunto altri tre fattori che concorrono a delineare un quadro di urgenza:

  1. La caduta dei tradizionali meccanismi-paracadute (ad es. il declino del potere statunitense) che in passato hanno in parte sopperito alla scarsa efficienza delle istituzioni;
  2. L’affermarsi di un diffuso anti-europeismo declinato sia come “anti-germanismo” da parte delle nazioni del sud-Europa, che come “anti-assistenzialismo” da parte di quelle del nord;
  3. La costante dittatura dello short-termism da parte delle classi politiche.

Nelle varie relazioni che si sono succedute, ho trovato altri due elementi degni di nota: Adolfo Urso ha fatto notare che la competizione politica in Italia nell’ultimo ventennio si è andata vieppiù configurando come lotta di singole personalità e di leadership. Di fronte a questa osservazione, il percorso più logico non sembra tanto opporsi al personalismo, quanto quello di dargli uno sbocco a livello istituzionale: il presidenzialismo soddisferebbe in buona parte questo trend ormai ben stabilito.

D’altra parte Ezio Bussoletti ha ribadito come una necessità ineludibile di una buona riforma costituzionale quella di introdurre un forte elemento di accountability. Di questo, peraltro, avevamo parlato molti mesi fa sia qui che sulla piattaforma online dell’Agenda Monti.

Pur condividendo tutte queste premesse, non ho firmato.

Non l’ho fatto per un motivo molto semplice: l’immobilismo italiano è tale che se si fa una riforma costituzionale, questa sarà verosimilmente destinata a durare alcuni decenni. Ora, non c’è alcun dubbio che il semi-presidenzialismo alla francese sarebbe una forma di stato ampiamente preferibile a quella attuale, ciononostante è pure fuor di dubbio che per colmare un ritardo di almeno vent’anni rispetto alle nazioni del nord Europa è davvero poco sensato copiare una forma di stato già invecchiata, per nulla esente da problemi, e che di fatto ha condotto la Francia ad una situazione non molto diversa da quella italiana. In altre parole, ho la sensazione che il DDL di Guzzetta più una riforma epocale sia, in fondo, di poco più che un fine tuning di ciò che già abbiamo, il che non può essere sufficiente.

Per comprendere questa idea bisogna alzare il punto da cui osserviamo la realtà e renderci conto che la Storia (quella con la S maiuscola) non è solo quella dei nostri padri o dei nostri nonni, ma comincia molto prima. E se passare dal parlamentarismo puro ad una ibridazione presidenziale può sembrare una rivoluzione se si considerano gli eventi degli ultimi 50 anni, per chi guarda la storia delle istituzioni allargando lo sguardo nel tempo e nello spazio questa appare una bazzecola. Quale sarà la forma di governo del prossimo secolo? È questa la domanda che dobbiamo porci. Protendere lo sguardo in avanti e sviluppare una visione è l’unico strumento che può consentire di muovere quel passo che ci consentirebbe non solo di rimetterci alla stessa velocità degli altri, ma di superarli, colmando il gap che abbiamo disgraziatamente formato nell’ultimo ventennio.

Se, dunque, il DDL Guzzetta dovesse essere approvato (e con ogni probabilità ci muoviamo nel dominio della fantascienza), il risultato sarebbe quello di condannare l’Italia ad altri 20 o 30 anni di un modello di stato che, pur migliore di quello attuale, nascerebbe già vecchio e imperfetto. Di certo è importante testimoniare, con questa e altre iniziative, il bisogno di una riflessione profonda sulle forme dello stato, ma questa deve saper guardare oltre il presente, anticipare i tempi per riguadagnare gli anni perduti. È il momento di pensare ad una forma dello stato che assuma i caratteri fondanti dell’istituto democratico ma che li sappia declinare con l’efficienza che nessun sistema parlamentare o presidenziale può consentire.

Chi sarà in grado di disegnare tale modello avrà in mano il motore della Storia.

       

 

 

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