L’altra faccia dell’omofobia

“Omofobo” è ciò che noi rinsecchiti professori di filologia chiamiamo “monstrum philologicum”. È una parola che, scomposta nel suo etimo (homos, uguale e phobos, paura) rimanda a un concetto opposto da quello che nella vulgata comune dovrebbe significare. L’omofobo, infatti, non è chi ha paura di ciò che è uguale, ma puntualmente il contrario. L’equivoco è nato dal fatto che quell’“omo” risulta in effetti essere solo l’abbreviazione di “omosessuale”, ma ecco che ormai il pasticcio era fatto. Di qui l’infelice lessema è passato per sineddoche a designare chi ha in antipatia tutto ciò che è diverso da sé e rappresenta una minoranza etnica, religiosa, di costume.

Alla scemenza lessicale, e sull’onda di un’emotività che raramente resta lontana dai corridoi della politica, si è passati recta via a quella legislativa. Dapprima le cd. “quote rosa”, che impongono al cittadino di votare qualcuno sulla base del sesso, creando una sorta di riserva indiana che di fatto sancisce l’idea per cui in politica non è affatto uguale essere donna o uomo. Poi, come se non bastasse, la peggiore legge che uno stato democratico potesse concepire: la Legge Mancino, che ti condanna al carcere (sic!) se solo osi esprimere un’opinione negativa che abbia a che fare con una minoranza. In altre parole, il vignettista può disegnare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo che si producono in un singolare trenino sodomita (così una nota copertina di Charlie Hebdo), ma guai a dire — chessò — che esiste una lobby gay che vuole imporre al resto del mondo una “teoria di genere” quantomeno discutibile. Se lo fai, si possono spalancare le porte del Regina Coeli.

È di questi giorni una polemica dai tratti surreali che vede contrapposti da una parte Dolce & Gabbana e dall’altra un vasto novero (mai dire lobby, mi raccomando) di artisti o pseudointellettuali gay. I primi sarebbero colpevoli di ritenere che l’habitus sessuale dovrebbe rimanere nella sfera privata, senza alcuna necessità di essere esibito o —peggio — usato a mo’ di scure per ottenere diritti per sé a scapito di quelli degli altri (in questo caso i bambini).

La reazione a questo pensiero eversivo è stata un unilaterale invito al boicottaggio del marchio D&G (con tanto di hashtag #boycottdolcegabbana). Tutti questi illuminati esponenti della “cultura gay”, in buona sostanza, affermano che se sei d’accordo con loro, bene, altrimenti scatta la ritorsione personale. Come andare dal fruttivendolo e comprare la verdura solo se il poveretto è d’accordo con l’adozione gay, per citare Stefano Gabbana.

Non è necessario il pronipote di Cesare Beccaria per rendersi conto che si tratta di fascismo al contrario. Come già fu per la vicenda, altrettanto assurda, di Barilla, ecco che per una voce che chiede solo di poter esprimere un’opinione scatta la ritorsione economica, personale, giacobina. E immaginiamo che cosa sarebbe successo se ad osare a chiedere il diritto di parola contro il pensiero unico non fosse stato un gay ma una persona qualunque, magari un padre di famiglia. Apriti cielo! Barilla, dopo l’opportuna gogna mediatica (ma non esistono lobby gay, mi raccomando!) e tante scuse, si sta ancora leccando le ferite, per altri sarebbero scattate direttamente le manette.

Questa è la libertà che tali signori predicano: tutti sono uguali nel poter esprimere la propria idea, ma alcuni sono più uguali degli altri.

Polidori

1 commento su “L’altra faccia dell’omofobia

  1. Quindi gli omofobi per ritorsione potrebbero boicottare il fruttivendolo e smettere di comprare finocchi ! Io invece per solidarietà all’arcigay ho cominciato a comprare quintali di cetrioli, così facciamo pari.

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