Gender & Politics
Negli ultimi mesi si è assistito al montare di una polemica, dai tratti accesi e talora violenti, circa l’introduzione in vari ambiti della vita civile e in particolar modo nell’istruzione primaria, di principî educativi che introducono la nozione di “genere”. Parallelamente a questa frattura sociale è nata anche una terminologia, talora impropria, che ruota intorno alla definizione di “teoria gender”. Il presente contributo si pone la finalità di fare chiarezza sulla terminologia, porre le basi razionali per un esame della questione, e indicare sinteticamente delle vie per ottenere un punto di vista il più possibile obiettivo. In ultimo si avanzano alcune proposte sulle politiche che lo Stato potrebbe mettere in atto ed i principî sottesi a tale azione.
L’articolo è realizzato col contributo di tutti i membri del think-tank ed informato dai suoi strumenti operativi, seppure in maniera discorsiva e non rigorosa, onde rendere il testo fruibile ad un più vasto pubblico.
Introduzione
Recentemente il papa ha pronunciato la seguente frase:
“[…] mi domando se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa”.
Il contesto è quello di un’udienza generale, il suo uditorio è il mondo. L’unico linguaggio che, con una platea così vasta, può utilizzare è il cd. “linguaggio naturale”: niente technicalities, nessun linguaggio iniziatico, ma una comunicazione semplice, diretta:
L’occasione per un’analoga denuncia dell’invasività del gender si è ripetuta in un contesto più raccolto, ma comunque alla presenza dei giornalisti:
https://www.youtube.com/watch?v=Rl4nudTT-dk
A prescindere dalla valutazione di merito su queste affermazioni, ciò che abbiamo notato è che taluni tendono a rispondere: «Non esiste alcuna teoria gender».
È d’obbligo, dunque, fare un passo indietro e chiederci: esiste una “gender theory” e, se sì, cosa afferma esattamente?
1. Essere o non essere?
Se Searle ci ha insegnato qualcosa, dibattere su una definizione è, nella migliore delle ipotesi, un vano esercizio di stile. Una “realtà sociale”, infatti, non trae la sua esistenza da un “fatto bruto”, ma da una convenzione tra individui. Ad esempio, un rettangolo verde di carta filigranata potrebbe essere inteso da un aborigeno come un mezzo per accendere un fuoco, da un animale come un pezzo utile per costruire il suo nido, e da un cittadino europeo come cento euro. L’oggetto rimane lo stesso, ma varia ciò che noi convenzionalmente stabiliamo che sia. In quest’ottica i cento euro esistono perché noi decidiamo che esistano, altrimenti esisterebbe solo il rettangolo di carta verde, cioè il fatto bruto. Di più, noi possiamo far esistere i 100 euro anche in assenza del rettangolo verde, ad esempio in un conto corrente online, in cui tutto, anche il conto stesso, è dematerializzato.
Mutatis mutandis, è evidente che il papa, parlando di “teoria gender” additasse a qualcosa che esiste in ragione di una convenzione. Se questa convenzione esiste, se c’è un gruppo riconoscibile di persone che stabilisce di dare il nome di “teoria gender” a una certa realtà sociale, il dibattito sull’esistenza è presto chiuso. Resta, invece, aperto quello sull’univocità della definizione. Stante l’esistenza di un significante “gender” il significato che questa parola assume in funzione del referente non è completamente univoco neppure nella comunità scientifica (v. infra §2.2).
Quanto all’espressione “teoria gender”, non è difficile trovare il contesto umano e le definizioni necessarie. Infatti è sufficiente una rapido utilizzo dei motori di ricerca del sito della Santa Sede per constatare che il papa, la CEI, e buona parte dei parlanti italiano, intende per “gender theory” l’insieme di ipotesi che tende a dissociare le espressioni fenotipiche legate al sesso dall’autopercezione:
«Secondo tale ideologia, il sesso biologico non ha alcuna importanza; non ha più significato del colore dei capelli. Ciò che conta è il genere, cioè l’orientamento sessuale che ognuno liberamente sceglie e costruisce secondo le proprie pulsioni, tendenze, desideri, e preferenze. E’ (sic) diventato celebre il detto di Simone de Beauvoir: “On ne naît pas femme; on le devient” (Non si nasce donna, lo si diventa). Detto coniato sulla scia di una affermazione di Erasmo di Rotterdam a proposito dell’educazione dei bambini “Homines non nascuntur, sed effinguntur”. L’essere umano dunque non è una realtà naturale, ma culturale (costruttivismo).» (1)
Letta in questi termini, la questione sembra essere l’esito naturale del dibattito femminista degli anni ’70 in cui, per abbattere la discriminazione della donna si era scelta la via di negare le differenze tra uomo e donna (2).
Naturalmente, questo non implica che per la comunità scientifica esista una vera e propria “teoria gender” siffatta, e neppure che un’altra realtà sociale X (ad esempio un libro di favole gender) sia o meno un’espressione della suddetta “teoria”, ma almeno non si potrà più mettere in discussione l’esistenza di un certo oggetto convenzionale che che è stato definito, più o meno propriamente, da un certo gruppo umano “teoria gender”.
Secondo la formulazione del Pont. Consiglio per la Famiglia, esiste dunque un oggetto chiamato “genere”, qui definito sinteticamente – ma, come si vedrà, impropriamente – “orientamento sessuale” che, in ultima analisi, una certa “ideologia” cerca di rappresentare come prominente rispetto al sesso biologico.
Per circostanziare meglio queste affermazioni dovremo preliminarmente fare qualche passo indietro.
2. Terminologia e Metodo
Il primo problema in cui ci siamo imbattuti partendo, per così dire, dalla fine del discorso, è quello del linguaggio. Non ci si può certo accontentare, infatti, di una sola definizione peraltro non condivisa dalla comunità scientifica. Resta dunque da fissare una minima terminologia tecnica. Per brevità, ci limiteremo ad adottare quella proposta dalla pagina americana di Wikipedia alla voce “gender”, arricchita da qualche altro elemento tratto dalla letteratura scientifica.
Alla fine il nostro bagaglio semantico conterrà almeno i seguenti oggetti:
- Sesso: Per brevità usiamo il lessema in relazione al fenotipo, dunque al cd. “sesso biologico”;
- Genere: “A person’s self representation as male or female, or how that person is responded to by social institutions based on the individual’s gender presentation (FDA 2011). Si distingue quindi tra un genere autopercepito e un ruolo di genere assegnato dalla società. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce il genere come il “result of socially constructed ideas about the behavior, actions, and roles a particular sex performs” sposando soprattutto l’aspetto pubblico e sociale della definizione della FDA;
- Identità di genere: il genere in cui una persona si identifica;
- Ruolo di genere: l’insieme di norme comportamentali associate rispettivamente ai maschi e alle femmine in un dato sistema sociale;
- Orientamento sessuale: l’attrazione emozionale, romantica e/o sessuale di una persona verso individui dello stesso sesso, di sesso opposto o entrambi.
A questi si dovrà aggiungere:
- Cisgender: chi decide di rimanere nel genere assegnato alla nascita;
- Disforia di genere: è la definizione attuale della condizione di dissociazione tra sesso e “genere assegnato alla nascita” della American Psychiatric Association (APA, 2013). È interessante notare che lo stesso fenomeno prima del 2013 era chiamato “Gender Identity Disorder” (APA, 1994). La parola “Disorder” è stata deliberatamente rimossa in quanto tale condizione non è più riconosciuta come un “disordine” (3);
- Normalità: in questo studio si assume la terminologia delle scienze statistiche, che si predilige rispetto a quella psicologica in ragione della sua neutralità etica e della sua biunivocità.
Quanto agli strumenti operativi di ragionamento sottostanti a questa sintesi discorsiva, possiamo ricordare brevemente almeno quelli propri di FORMA, che qui riassumiamo sinteticamente (4) :
Principio di verità: l’uomo è l’unico essere vivente in grado di esercitare l’opzione di verità;
Astrazione: l’uomo è l’unico essere vivente in grado di “mettersi a distanza” dall’oggetto della sua speculazione;
Affinità: l’uomo è l’unico essere vivente in grado di sperimentare un’autentica immedesimazione orizzontale e verticale con altri membri della sua specie.
3. Il genere
Sullo sfondo, dunque c’è la distinzione tra sesso e genere. Quest’ultimo, inizialmente limitato a “maschile” e “femminile” (5) è considerato un fattore culturale (6), come sostiene la più nota teorica di questo campo:
“gender is an identity strenuously constituted in time, instituted in an exterior space through a stylized repetition of acts” (7)
Stante questo suo carattere simbolico-rappresentativo (8), il genere manifesta una certa fluidità sia orizzontale (cioè sia interculturale: ciò che è “mascolino” in una cultura può non esserlo in un’altra, che intersoggettivo: ciò che è “mascolino” per me potrebbe non esserlo per te) che verticale (ciò che oggi è considerato “mascolino” potrebbe non esserlo domani). Di più, molti sottolineano il carattere performativo del genere, rimarcando il ruolo attivo che ciascuno può avere nel definire il proprio genere. Questa, d’altronde, è la logica conseguenza della teoria costruttivista: se il genere è un mero accidente sociale, il nucleo primario della società, cioè l’individuo, può tentare di intervenire attivamente nel modificarlo. In quest’ottica, sebbene la Butler abbia ripetutamente sostenuto che “gender performativity is not a matter of choosing which gender one will be today” (9), può legittimamente sorgere la sensazione che questa fluidità del genere possa metterne in discussione gli stessi confini di esistenza.
All’altro capo della questione, l’ultima evoluzione del dibattito riguarda il fatto che taluni, specie in ambiente femminista, hanno cominciato a intendere non solo il genere, ma anche il sesso come un costrutto sociale (10).
4. Dal problema sociale…
Quello sul genere è un problema teoretico nato, tuttavia, da questioni pratiche. Le società, infatti, tendono quasi sempre a costruire dei tabù intorno a eventuali comportamenti “cross-gender” (11) come, ad esempio, un uomo che si veste da donna o viceversa. Tali atteggiamenti discriminatori hanno origine quando le aspettative della società verso la coincidenza genere-sesso (comportamento cisgender) non vengono soddisfatte. Gli studi di genere hanno vieppiù evidenziato come queste aspettative, a loro volta, non siano altro che il risultato di stereotipi che la storia ha radicato nella cultura delle società, ad esempio: il maschio forte, decisionista, razionale, etc. ; la donna sottomessa, insicura, sensibile, etc.
La lotta allo stereotipo, dunque, diventa uno degli strumenti principali per affermare la libertà di orientare il genere a prescindere dal sesso biologico e combattere così omofobia e discriminazione.
Parallelamente al nascere di politiche ad hoc, un amplissimo filone di gender studies (12) ha tentato di gettare luce sulla genesi degli stereotipi di genere sia sul piano storico (13) che, in molto minor misura, su quello biologico.
Proprio da qui può essere ragionevole partire per iniziare a formarsi un’idea obiettiva su una questione con fin troppe ramificazioni. Mentre, infatti, gli studi socio-psico-antropologici e buona parte di quelli storici sono spesso concordi nel vedere gli stereotipi di genere esito naturale o corollario di secoli di predominio del genere maschile (gli studi femministi prediligono espressioni più colorite quali “cultura fallocratica” o “fallocrazia”), finendo, in ultima analisi, per destituire tali stereotipi di ogni fondamento in sé, gli studi biologici sono, tendenzialmente, meno apodittici.
Prendiamo ad esempio un classico luogo comune, uno stereotipo di genere che oggi si definirebbe volgarmente sessista: gli uomini sono più bravi delle donne a leggere le cartine geografiche.
Una recente meta-analisi (14) sugli studi che esplorano la relazione tra identità di genere e abilità spaziale cognitiva ha evidenziato risultati opposti alla linea dei “gender studies”. Si trattava di studi sulla rotazione mentale, in cui i partecipanti dovevano giudicare l’identità di alcune immagini tridimensionali osservate sotto diverse angolazioni e rotazioni. Il risultato è che vi è una correlazione tra genere maschile e rotazione mentale (15).
Si tratta, almeno per questa fattispecie, né più né meno che della base razionale dello stereotipo. Si sta dicendo che mediamente gli uomini (intendendo qui coloro che essendo uomini si percepiscono anche come tali) mostrano una maggiore propensione verso una specifica abilità spaziale cognitiva. Questo, naturalmente, non implica che allora tutte le donne – qualunque cosa si significhi con questo lessema – avranno una minore propensione verso la medesima abilità, ma solo che lo stereotipo della cartina non è piovuto dal cielo né è stato imposto da secoli di “fallocrazia”, ma è l’esito di una protratta osservazione media della semplice realtà delle cose.
Purtroppo mancano studi con basi di evidenza sufficientemente larghe (meta-analisi, studi randomizzati, multicentrici, a doppio cieco, etc.) che analizzino altri aspetti o altri stereotipi di genere. Ad esempio, volendo esaminare lo stereotipo secondo cui le donne sono più “emotionals” degli uomini, se ponessimo mille ragazze e mille ragazzi tra i 20 e i 30 anni davanti alle scene dello sbarco in Normandia di “Salvate il soldato Ryan”, o davanti al finale di un film romantico, saremmo così certi di ottenere lo stesso numero di reazioni emotive? Sulla base di quanto appena visto, c’è ragione di dubitarne.
È qui che inizia la nostra divergenza con i maggiori “genderists”. Per la Butler, ad esempio, stereotipi e “ruoli di genere” sono mere costruzioni sociali, delle quali ci si può e, anzi, ci si deve sbarazzare per liberare la propria “gender performativity”. Di fatto, dunque, essi non hanno ragion d’essere.
Ma non sarebbe, piuttosto, preferibile affermare che bisogna liberarsi di stereotipi e “ruoli di genere” in quanto stereotipi (cioè fallacie logiche) e non perché essi non abbiano un razionale? La questione è molto diversa: nel primo caso (Butler) stiamo affermando che i “ruoli di genere”, cioè significative differenze di base tra maschio e femmina nell’agire, vedere il mondo, interpretare la realtà, non esistano in sé, ma siano meri costrutti sociali. Nel secondo caso, invece, stiamo affermando che esiste una differenza di base tra maschio e femmina nell’agire, vedere il mondo e interpretare la realtà ma riteniamo sbagliato possa avere esiti generalizzanti su una società.
Questa conclusione è del resto logica conseguenza dell’utilizzo degli strumenti di lavoro cui abbiamo accennato al §3: l’opzione di verità ci impone di non prendere gli studi scientifici come se fossero un prodotto à la carte, considerando solo quelli che sostengono una certa visione della realtà e rifiutando gli altri. Analogamente l’affinità ci suggerisce che ogni discriminazione tra esseri uguali sul piano dell’umanità (maschi e femmine) sia inaccettabile, tanto più se basata su fallacie logiche quali sono gli stereotipi di genere.
5. …a quello teoretico
Il nostro terzo strumento, l’astrazione, ci ha accompagnato sin qua abbastanza silenziosamente, ma è ora di attribuirgli un ruolo maggiore. Lo si può fare ponendosi innanzitutto la domanda: esiste il genere ed ha senso parlarne?
Si è già detto di come tale categoria descriva un oggetto che, per sua natura, è piuttosto “fluido” (cf. §3). D’altro canto esistono altre categorie di oggetti altrettanto privi di un fatto bruto che si comportano in modo simile, ad esempio la bellezza o l’etichetta, ove valgono le stesse indeterminatezze orizzontali e verticali di cui si è detto al §3. Da notare che, proprio come non si può dare un genere “oggettivamente maschio”, è altrettanto arduo definire un “oggettivamente bello” o un “oggettivamente educato”. L’analogia serve a far capire che si può tranquillamente parlare di genere come di bellezza o di etichetta senza paura di cadere in aporie logiche.
Ciò che invece può stupire – e qui forse potremmo sembrare più realisti del re – è che proprio in ragione del fatto che la stragrande maggioranza degli studi di genere mette in discussione una rigida e dicotomica esistenza delle categorie di “mascolinità” e “femminilità”, non sembrerebbe appropriata la definizione della FDA, almeno quando parla di “self representation as male or female” (§1).
Eccoci allora al nocciolo del problema. Da una parte si parla di “genere” in termini di “autorappresentazione come maschio o femmina”, e dall’altra si afferma l’idea che “mascolinità” e “femminilità” siano categorie sociali imposte ab extra, in larga parte esito di stereotipi culturali. È chiaro che le due cose difficilmente possano stare insieme.
Ma si è visto che, mentre non vi è nessun problema teoretico a definire una categoria “genere” come “autorappresentazione di sé [come maschio o femmina]” , sembra che non si possa affermare che “mascolinità” e “femminilità” siano solo stereotipi culturali tout court. Come si è visto per il caso dello studio di Reilly e Neumann, e come già acquisito dalle neuroscienze, il cervello di uomini e donne (intendendo qui il fenotipo e non il genere) lavora effettivamente in modo diverso.
La spiegazione più economica ai concetti di “mascolinità” e “femminilità” sembra allora che le società non abbiano fatto altro che sottolineare, esagerare o financo distorcere il modo di agire e interpretare il mondo di maschi e femmine, nel quale esiste una effettiva differenza affermata dalle neuroscienze. Negare questo fatto e ridurre il concetto di “mascolinità” e “femminilità” a meri accidenti storici, non sembra accettabile sulla base delle nostre premesse. Per dirla con Jones:
“to eliminate discrimination based on sexual difference’ or ‘to gain the same rights that men enjoy’ are plausible goals, ‘to eliminate sexual differences’ is not” (16).
Di più: se appare fortemente problematica la negazione di una base biologica nelle categorie di “mascolinità” e “femminilità”, l’idea della Butler secondo cui anche il sesso sarebbe un costrutto sociale (17) appare come un irricevibile praesumptum de praesumpto.
Sulla scorta di queste riflessioni, si potrebbe immaginare – ma si tratta solo di una supposizione – che la FDA abbia assunto il concetto di genere ma non il rifiuto delle categorie di “mascolinità” e “femminilità” come meri artefatti sociali. Sembra, questa, una posizione ragionevole.
6. Tende ad “abolire la differenza tra i sessi”?
Si è visto come il concetto di “genere” di per sé non sembri implicare una diminutio in ciò che fa sussistere una differenza tra le categorie (non fenotipiche) “maschio” e “femmina”. Anzi, la definizione della FDA sembra assumere il contrario, e cioè che tali categorie godano di uno statuto ontologico proprio, pur non sottovalutando – nella seconda parte della definizione – l’importanza di come queste categorie siano calate nella storia e interpretate dalla società.
Non così l’OMS che, viceversa, sembra assumere in toto le premesse della Butler e riconoscere al genere solo una motivazione di natura sociale. Questa linea è ben evidente da alcune scelte linguistiche nei suoi documenti. Si pensi, ad esempio, al sintagma “genere assegnato alla nascita”. Questo è il genere che “di default” viene associato ad una persona sulla base del fenotipo sessuale, salvo che poi questo può variare, come si è visto, nel corso della vita, anche prima della maturità. È interessante notare come proprio nei documenti dell’OMS sia di fatto scomparso non solo il rapporto tra genere e categorie di “mascolinità” e “femminilità” , ma anche ogni menzione del sesso biologico, sostituito da “genere assegnato alla nascita”. Sembra dunque che per l’OMS, come per la Butler, il sesso biologico non costituisca più un elemento rilevante, tanto da poter cedere il passo al genere. Almeno in questo caso, dunque, l’osservazione secondo cui alcune interpretazioni del lessico e degli studi sul genere possano modificare anche in maniera drastica l’importanza da attribuire alla differenza tra i sessi, non sembra così infondata.
A questo punto, tuttavia, siamo nuovamente incappati in un problema linguistico. Sembra infatti esistere un filone di gender studies che non intende affatto sottostimare o negare l’evidenza scientifica secondo cui le categorie di “mascolinità” e “femminilità” abbiano una base biologica prima che sociale, e un altro che, invece, nega tale evidenza. La sensazione è che solo nel secondo caso elementi che provengono dagli studi di genere abbiano subito una ideologizzazione, finendo così per perdere parte del loro supporto razionale. Porre, dunque, entrambe le fattispecie sotto il cappello di “gender theory” appare, in questo caso, quantomeno fuorviante.
Una proposta linguistica che tenga conto di queste premesse potrebbe essere la seguente. Si potrebbe parlare di “studi di genere” per tutti quegli ambiti – sia delle discipline umanistiche che di quelle scientifiche – che mantengono una solida base razionale considerando tutti gli aspetti della complessa realtà intorno alle categorie di “mascolinità” e “femminilità”, e “ideologia gender/di genere” gli ambiti in cui si rinuncia in maniera, appunto, ideologica all’esistenza di un fondamento biologico, prediligendo quello storico-sociale-antropologico.
7. Dalle policies alle politics
Stanti queste riflessioni preliminari, non si può negare che il primum movens sia degli studi che dell’ideologia di genere sia una reazione a fenomeni sociali che richiedono una risposta da parte della comunità.
È oggettivamente inaccettabile per una società che voglia dirsi civile che possa esistere una discriminazione sulla base di un comportamento non conforme alle aspettative della società stessa relativamente al ruolo di genere. L’evidenza è per noi così palmare che non vogliamo dilungarci su questo.
Il punto, dunque, risiede piuttosto in quali politiche intraprendere per combattere tali discriminazioni. La nostra sensazione è che, come per gli studi di genere, anche nell’ambito delle politiche, esistano (almeno) due diversi approcci:
Preso atto che le discriminazioni esistono, e che esse sono correlate a comportamenti cross-gender di una minoranza della cittadinanza, è ragionevole ritenere che esse possano essere affrontate e combattute con un’operazione di tipo culturale. Da una parte, si può assumere sia la terminologia che i concetti di base degli studi di genere e utilizzarli per un lavoro trasversale di informazione, senza assumere giudizi morali o visioni partigiane. Occorre inoltre, almeno fino a maggiore evidenza scientifica, sospendere il giudizio sul fatto che questo o quel comportamento cross-gender rientri o meno nella fisiologia. Il rispetto, infatti, non dovrebbe discendere dal riconoscimento di status di salute o meno, ma dall’educazione alla diversità nel rispetto della libertà di ognuno. Analogamente, è necessario non falsificare la realtà sostenendo che tali comportamenti siano Gaussianamente “normali”. Essi non lo sono, senza peraltro per questo – e per le stesse ragioni – dover entrare nel motivo per cui è così. In altri termini, anche riconoscendo che i “ruoli di genere” siano in gran parte un costrutto sociale, non è affatto detto che un essere umano, nell’esercizio dell’opzione di verità e nel pieno diritto di perseguire la propria felicità, non possa scegliere di aderire a uno di questi vetusti ruoli e impostare la propria vita di relazioni sociali in base ad esso, senza per questo discriminare scelte differenti o essere a sua volta discriminato. In altre parole, non si vede alcun motivo razionale per cui in nome della libertà di autodeterminazione si debba puntare il dito contro dei modelli sociali consolidati in cui molti – o meglio, la maggior parte degli individui – positivamente si riconoscono, ponendoli su un piano di contrapposizione ed esclusività rispetto ad altre scelte. L’azione dello Stato, dunque, dovrebbe essere pertanto orientata dapprima all’informazione, e quindi all’educazione al rispetto, e dunque alla lotta alla discriminazione in sé. Questo, peraltro, dovrebbe valere per ogni genere di discriminazione: etnica, religiosa, culturale.
Per contro, le politiche che scaturiscono da una lettura fondamentalista degli studi di genere o che assumono l’interpretazione costruttivista della Butler elevandola a paradigma ermeneutico della realtà non possono che presentarsi profondamente diverse da quelle poc’anzi suggerite. Invece che concentrarsi sull’educazione al rispetto delle differenze, la linea proposta è quella di postulare che queste differenze, in effetti, non esistano. Se si tratta, infatti, di meri artefatti sociali, la società stessa può disfarsene. L’obiettivo si può perseguire per via positiva (ad es. tramite l’utilizzo nelle scuole di testi gender-oriented, v. infra) o per via negativa (ad es. vietando testi che suggeriscano stereotipi interpretati come sessisti).
8. La questione educativa
La storia si complica ulteriormente quando si passa agli strumenti da mettere in campo per promuovere una cultura di integrazione delle minoranze che tenga conto dei risultati degli studi di genere. Considerata la vastità del campo di analisi ci limiteremo qui allo stato dell’arte in Italia.
Qui, rispetto al mondo anglosassone dove questo dibattito esisteva già da decenni, l’evoluzione pedagogica ha subito una radicale accelerazione negli ultimi anni. Significativo l’approccio alla disforia di genere: in un lasso di tempo brevissimo si è passati dal definirla uno stato patologico a una condizione fisiologica da presentare come perfettamente alternativa al comportamento cisgender attraverso letteratura destinata alla prima infanzia. L’attenzione di cui la narrativa tradizionale per bambini è stata fatta oggetto deriva dall’osservazione che essa tenda a presentare esclusivamente una dicotomia piuttosto rigida tra ruoli di genere:
A survey conducted by Sue Jackson and Susan Gee affirmed this observation. After examining books for pre-adolescent readers that were published during the past five decades, they discovered: “Notably, positions as ‘tomboys,’ girls who look and act similar to boys, were not available in the texts. . . . [M]ore broadly, positions that resist or challenge traditional notions of femininity were absent”. As a result, pre-adolescent children “grow up learning about the ‘correct,’ dominant worldview about the ways of being masculine and feminine” (18)
L’attenzione dei testi e più in generale degli strumenti educativi utilizzati in Italia si è concentrata, sino a questo momento, sull’educazione al rispetto per sé solo da un punto di vista formale. Nella sostanza, è evidente l’assunzione del livellamento della differenza. In questi testi, ad esempio, la famiglia omogenitoriale è presentata come un modello perfettamente alternativo a quella eterogenitoriale. Questo approccio diventa problematico man mano che distorce la realtà. A mero titolo di esempio:
- La donna che “dona” il proprio ovulo o “affitta” il proprio utero per la fecondazione eterologa è presentata come “una donna gentile”, non come una persona che offre un servizio a pagamento;
- Nulla viene detto sul fatto che un figlio nato da una coppia omogenitoriale perde sia il diritto di avere una madre o un padre, sia quello di sapere chi sono i suoi genitori biologici; (19)
- Le linee guida all’educazione alle tematiche di genere invitano i docenti a evitare «analogie che facciano riferimento a una prospettiva eteronormativa (cioè che assume che l’eterosessualità sia l’orientamento normale)» (20).
Il terzo punto è il più problematico, dal momento che coinvolge il linguaggio stravolgendo il significato stesso della parola “normalità”. Infatti, è del tutto evidente che la “norma” (intesa in senso statistico, non legale o psicologico) sia rappresentata esattamente dalla famiglia eterogenitoriale. Presentare la disforia di genere e i comportamenti sociali che ne conseguono come “normalità” e non come evenienza che riguarda una porzione di cittadinanza che difficilmente supera l’ 1% (dati OMS) appare una cosciente abdicazione al principio di verità. Anche ammettendo le finalità dei programmi educativi quando essi sono rivolti all’educazione al rispetto, non si può notare che il mezzo con cui tale obiettivo è perseguito passa perlopiù attraverso un processo di appiattimento di una realtà complessa in un quadro più semplice, ma falso.
Luca Benegiamo
Andrea Negrini
Michele Nesci
Valerio Polidori
Summary
Negli ultimi quarant’anni è nato e si è enormemente sviluppato un filone di studi che tende a gettare luce sulle categorie di “mascolinità” e “femminilità” (oltre che sulle categorie intermedie), su come esse abbiano preso forma nel corso della storia e su come le diverse società le abbiano assunte derivandone stereotipi o alimentando da esse processi di discriminazione sociale.
Tali studi hanno pure creato una terminologia alla cui base vi è la distinzione tra il sesso biologico (fenotipo) e il genere (autopercezione di sé in relazione alle categoria di maschio o femmina).
Negli ultimi anni, una parte di questi studi ha radicalizzato alcuni concetti spingendosi ad affermare che non solo le categorie “mascolinità” e “femminilità” sono totalmente prive di una base biologica, ma che il sesso stesso è, in ultima analisi, un mero artefatto sociale.
Dal lato opposto è più o meno contemporaneamente emersa una presa di posizione contraria ma parimenti radicalizzata, spesso volta più che alla difesa di un presunto “diritto alla discriminazione del diverso”. Dall’una e dall’altra parte sono stati costruiti molti straw men ed è stato ad arte creato e ingigantito un senso di pericolo sociale e “immoralità” collegato al punto di vista opposto, con l’unico risultato di non favorire una riflessione serena sull’argomento da parte del pubblico. A questo ha contribuito non poco la trattazione fornita dai media, spesso superficiale e orientata unicamente verso un approccio sensazionalistico alla notizia.
Riconoscendo la necessità da parte dello Stato di opporsi ad ogni forma di discriminazione, ivi comprese quelle legate al genere, si ritiene necessaria un’operazione culturale che assuma quanto degli studi di genere ha solide basi scientifiche rigettando, viceversa, le sue assolutizzazioni di matrice ideologica. L’interesse dello Stato dovrebbe focalizzarsi, in altre parole, sulla discriminazione in sé e sull’educazione al rispetto delle differenze, piuttosto che inscenare la finzione che esse non esistano. Mentre sembra necessaria un’operazione culturale rivolta alla cittadinanza in generale e alle famiglie, gli strumenti educativi, specialmente quelli della prima infanzia dovrebbero tener conto di questi principî generali ed essere utilizzati con la massima cautela.
Note
(1) Pont. Consiglio per la Famiglia al paragrafo “La teoria del gender”, testo integrale qui. Già nel 2000, tuttavia, il medesimo dicastero parlava di una “ideologia del gender”, cf. questo link. Lo stesso testo è utile per avere un raffronto sul alcune delle definizioni proposte al §2.
(2) “This dilemma has come to us in the form of debates about equality or difference: ‘Are women the same as men? And is this sameness the only basis upon which equality can be claimed?” A. L. Jones. The Gender Vendors, Lexington Book, 2014, p. 66.
(3) Il processo di depatologizzazione nella mentalità e nella letteratura scientifica americana è descritto in M.A. Abate, Trans/Forming Girlhood: Transgenderism, the Tomboy Formula, and Gender Identity Disorder in Sharon Dennis Wyeth’s Tomboy Trouble, in M. Sönser Breen (Ed.), Critical Insights. Gender, Sex & Sexuality, Grey House Publishing, Ipswich, Massachusetts, 2014, pp. 226-241.
(4) Per una descrizione dettagliata si rimanda al nostro L’Isola dei due polli: democrazia liquida a ontologia esplicita integrata, Garamond, Roma, 2013.
(5) A, Oakley, Sex, gender and society, Gower, London, 1985 [1972], p. 16.
(6) M. Crawford, Transformations: Women, gender & psychology (2nd ed.), McGraw-Hill, New York, 2012.
(7) J. Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity. Routledge, New York/London, 1990, p.140. Nello stesso volume si parla del genere anche come “ a symbolic form of ‘public action’ ”.
(8) D. Glover, C. Kaplan, Genders, Routledge, London/New York, 2009, p. 18.
(9) J. Butler, Critically Queer. GLQ: A Journal of Lesbian and Gay Studies 1.1 (1993): 17–32 , p.21.
(10) Così, ad esempio, J. Butler, Bodies that matter: On the discursive limits of ‘sex’. Routledge, New York 1993.
(11) cf. Jones, cit. pp. 84 scc.
(12) Oggi tali studi sono arrivati ad abbracciare persino la preistoria delle relazioni umane, v. Diane Bolger (Ed.), A Companion to Gender Prehistory, Wiley-Blackwell, 2013.
(13) F. Santoro L’Hoir, The Rhetoric of Gender Terms ‘Man’, ‘Woman’, & the Portrayal of Character in Latin Prose, Brill, Leiden/New York/London, 1992.
(14) D.Reilly , D. L. Neumann, Gender-Role Differences in Spatial Ability: A Meta-Analytic Review, Sex Roles, 68/9 (May 2013), pp. 521-535.
(15) C. Richards, M.J. Barker (Edds.), The Palgrave Handbook of the Psychology of Sexuality and Gender, Palgrave Macmillan, New York, 2015, p. 152.
(16) Jones, cit., p. 67.
(17) V. supra, nota 10.
(18) M.A. Abate, cit., p. 226.
(19) Si può ascoltare il testo della fiaba su Youtube.
(20) A.Montano, S.Calì, A.Zagaroli, Educare alla diversità a scuola, Istituto A.T.Beck, Roma 2013, p. 6. Si tratta del più noto opuscolo destinato a fornire linee guida sull’educazione alle tematiche legate al genere.
Cari colleghi formisti, in primo luogo chiedo scusa per il ritardo nella mia risposta… Ho riletto tutto un paio di giorni fa e mi sono dato un po’ di tempo per riflettere. La mia impressione generale rispetto a questo lavoro, ricco di spunti anche geniali come sempre, è un po’ l’impressione generale che ho del modo di procedere “formista” fino ad oggi. Tale modo di procedere è in parte giustificato dal comprensibile bisogno di capire cosa si stia realmente facendo e su cosa si possa davvero impattare. Ma io sono forse la persona che guarda le cose in modo più distaccato… che maggiormente considera già un risultato il “capire qualcosa” a prescindere dalla funzione d’uso di questo eventuale capire. In questa prospettiva, a me questo ragionamento (che apprezzo, peraltro) sembra ancora affrettato… vi leggo il pericolo di un “jump to solution”. Occorre mettersi con santa pazienza e lasciare maturare le cose un po’ di più… ed in questo senso questo documento, non ancora pubblicabile secondo me, è un valido punto di passaggio.
Veniamo ad alcune osservazioni più specifiche.
Il pensiero del papa.
Nel documento sono inseriti due discorsi del papa, entrambi condivisibili. Il documento dice che il secondo discorso dice le stesse cose del primo ma “con più energia” mentre a me sembra che il papa dica due cose completamente diverse.
Nel primo discorso il papa si domanda se “la” teoria gender (trovo sbagliato il “la” come ho sempre detto) sia espressione della paura che abbiamo del sesso, noi “moderni”. Bene questa domanda merita un approfondimento. Il fatto che questo approfondimento non ci sia nel documento (non potrebbe esserci… ci vorrebbe un progetto di ricerca dedicato) ma ci sia il riferimento a questo discorso è un indizio di quello che dicevo all’inizio.
Nel secondo discorso il papa racconta un episodio sconcertante e fascista (nel peggior significato di questo termine) di “colonizzazione ideologica”: far entrare nelle scuole – in Argentina credo – una certa teoria in cambio di un finanziamento! Esercitare pressione per ottenere una deriva culturale, agendo addirittura nel campo “sacro” dell’educazione. Questo è un discorso serio: trasliamolo in un altro contesto per vedere come funziona. Supponiamo che un gruppo di ricchi coltivatori di banane offra un finanziamento al Ministro dell’educazione purché venga diffuso un sussidiario che affermi che le banane fanno bene e devono essere mangiate ogni giorno. Come valuteremmo questa cosa? Per me (come dice il papa) è anti-democrazia. La democrazia è infatti decidere in base ad argomentazioni, mentre qui la decisione è legata ad un finanziamento: inaccettabile qualsiasi siano i reali eventuali benefici del mangiare banane.
Questi due discorsi del papa mi sembrano, come dicevo, completamente diversi l’uno dall’altro… e non c’entrano molto con il gender. Notiamo che il primo discorso non critica esplicitamente “la” teoria gender ma dice da dove questa potrebbe derivare. Tra l’altro il papa non è assertivo ma formula una domanda. Il secondo discorso è in realtà una legnata agli anti-genderisti. Dice acutamente quando c’è colonizzazione ideologica: quando il motore propulsivo di una iniziativa culturale non è l’argomentazione. Attenzione ad un particolare che ritengo importantissimo: non serve che i coltivatori di banane abbiano la coscienza a posto (magari le banane sono dei reali “tocca-sana”)… lo scambio finanziamento/diffusione del sussidiario spezza il legame tra argomentazione e decisione ed è questo quello che conta. Alla stessa maniera, però, si possono criticare i coltivatori di banane solo portando (come ha fatto il papa) le prove di questa perdita di correlazione tra argomentazione e decisione. Non si possono criticare, invece, adducendo il fatto che la decisione è sbagliata! Si tratterebbe di un caso eclatante di fallacia di affermazione del conseguente.
Il resto contiene molti spunti validi ma difetta secondo me rispetto al consolidamento di uno schema concettuale. C’è tra l’altro se capisco un errore. Faccio così: dico l’errore e esprimo brevemente lo schema concettuale che ho nella mia testa.
L’errore
Il concetto di genere non è un oggetto sociale “alla maniera di Searle”. Un oggetto sociale è un elemento del dominio di una ontologia in vigore in una certa comunità che è entrato nel dominio in ragione di una decisione collettiva dei membri di quella comunità. Il concetto di genere invece è parte della intensionalità collettiva di quella comunità. Il fatto che l’essere umano sia dotato di intensionalità e che questa intensionabilità sia osservabile e nominabile è un fenomeno naturale, non legato ad alcuna decisione.
Ecco alcuni elementi della “mia concettualizzazione” (almeno altrettanto immatura di quella espressa dal testo… ma tant’è… e questo lo dico senza alcuna ironia).
1. Noi disponiamo solo di teorie sul mondo… il mondo non è nella nostra testa. Il sesso è una categoria della nostra teoria sugli esseri viventi. E’ una cosa inventata dall’uomo ma che si riferisce immediatamente ad una parte della realtà.
2. Il sesso ripartisce gli esseri umani in uomini e donne (gli esseri umani “normali”, nel senso dato dal testo a questa parola). Si genera così una intensionalità collettiva rispetto alla parte maschile e alla parte femminile dell’umanità. Dobbiamo intendere questa intensionalità collettiva come un fenomeno venutosi a creare di fatto per via del naturale potere cognitivo degli esseri umani: che “nomina” e “attribuisce significati”.
3. Queste intensionalità sono quindi oggetti del mondo (come il Vesuvio o un certo gatto) e possono essere a loro volta nominate, osservate e studiate. Prendono il nome di “generi”. Il genere maschile è ciò che la nostra cultura esprime delle persone di sesso maschile, è la teoria che l’uomo si è dato (in una certa cultura) sulle persone di sesso maschile. Similmente vanno le cose per il genere femminile.
4. Una teoria sul genere è quindi una teoria su una teoria. Non c’è nulla che non va in questo: una teoria è un oggetto del mondo (anche se non un oggetto sociale, come l’Italia) può essere ciò a cui un nome si riferisce e può essere oggetto di una ulteriore teoria. Gli studi di genere esprimono di fatto l’idea che valga la pena studiare l’intensionalità collettiva legata ai due sessi. Io condivido pienamente questa idea!
5. Il fatto (indiscutibile) che l’intensionalità collettiva legata al sesso femminile sia condizionata dalla realtà di questo sesso non accorcia in alcun modo la distanza cognitiva tra sesso femminile e genere femminile.
6. E’ evidente che il genere femminile sia condizionato dalla cultura, espressione della cultura (esiste un legame fortissimo tra cultura e intensionalità). Ed è evidente che uno studio sul genere è un modo brillante e innovativo per intercettare la violenza che una certa cultura ha prodotto e trovare spunti (e argomentazioni!) per combatterla… e per attenuare la sofferenza che ne consegue.
Per adesso mi fermo qui (ci sarebbero altre cose da dire… ad esempio sulla interazione tra teorie di genere e ruoli… dove i ruoli SONO OGGETTI SOCIALI!). Vorrei approfondire la corrispondenza tra questi sei punti e il testo che ho letto prima di andare avanti… potremmo fare una riunione formista a riguardo!
Paolo, converrai che per capirci dobbiamo usare il medesimo linguaggio. Ho l’impressione (correggimi se sbaglio) che il tuo uso di “gender-genere” sia diverso da quello descritto nel pezzo.
Altrimenti io ho capito che secondo te il gender è un oggetto del mondo mentre il sesso biologico una convenzione.
Ogni volta che parliamo del mondo usiamo delle convenzioni: anche se parlo di questa sedia sulla quale sto seduto uso delle convenzioni ma mi riferisco a qualcosa che sta nel mondo. Il sesso è qualcosa di complicato: è un universale. Non entrerei qui nella disputa sugli universali (è più di un secolo che i filosofi si scannano in questa disputa). Direi che il sesso è una convenzione che si riferisce a qualcosa che sta nel mondo mentre il genere è una convenzione che si riferisce ad una teoria che sta nel mondo (non vedo come questo vada in contraddizione con quanto detto nel pezzo: l’errore che trovo nel pezzo consiste nel considerare il genere un oggetto sociale alla maniera di Searle). In ogni caso è graditissima la discussione on-line. Proporrei anche (non in alternativa ma in aggiunta e anche dopo la pubblicazione) una discussione vis-a-vis in una serata formista allargata.
Dovresti spiegarci il perché, visto che è proprio la Butler a definire il gender come un oggetto sociale (J. Butler, Bodies that matter: On the discursive limits of ‘sex’. Routledge, New York 1993). Insomma sembri più realista del re. Spiegami/ci in che cosa il genere come lo abbiamo definito è diverso – chessò – dalla “professione-professionalità”. Non è frutto di una convenzione tra individui che si basa sul confronto tra persone e ruoli? Vuoi dire che è una cosa che esiste “in sé”? Peraltro, a margine della tua “scuola” filosofica, definire il sesso una convenzione mi pare una mossa rischiosa, a meno che non stiamo semplicemente declinando: non esistono i fatti ma solo le interpretazioni. In questo caso metterei da parte questo approccio altrimenti usciamo pazzi. Difficile dire che la coppia di cromosomi XX e XY sia una convenzione.