Il Reno e il Danubio
Difficilmente gli abitanti di Magonza, che videro la loro città devastata dopo che il 31 dicembre del 406 d.C. una moltitudine di Vandali, Alani e Suebi attraversò il Reno ghiacciato, avrebbero immaginato che la storia si sarebbe ripetuta 1600 anni dopo. Eppure, mutatis mutandis, è ancora lì, sul più esteso limes naturale del fu Impero romano , che si giocano le sorti dell’Europa, ora come allora alle prese con massicce migrazioni di popoli.
I primi barbari ad arrivare fuggivano a loro volta da altri barbari: gli Unni. Non diversamente oggi, molti di questi migranti fuggono dalla guerra che dei barbari (non importa se si chiamino Dāʿish o Assad) hanno portato nelle loro case. Già, perché qua finisce l’analogia. Buona parte di queste popolazioni in fuga, infatti, non sono affatto di “barbari”, ma di persone che avevano un’istruzione, un lavoro e una casa.
C’è di più. Tutti ricordiamo la vicenda e la foto — che ha fatto il giro del mondo — del piccolo Aylan, profugo siriano di origini curde, annegato nel tentativo di raggiungere la Turchia su un barcone. Il “civilissimo” Charlie Hebdo, quello per i quali mezza Europa ha ripetuto per settimane “Je suis Charlie” (per fortuna noi ci siamo astenuti), così commentava, alla luce dei fatti di capodanno a Colonia, il futuro negato di questo bambino:
Sia il commento di Charlie Hebdo, sia la risposta — che altro non si può definire che regale — della regina Rania dimostrano senza ombra di dubbio che oggi i barbari spesso sono anche dall’altro lato del Reno.
Qui viene il difficile, allora. In un mondo sempre più dominato da una diffusa cultura della semplificazione e dell’epifenomeno, l’opinione pubblica tende a dividersi in due estremi opposti. Alla domanda “chi sono i barbari?”, i cultori della ruspa di Salvini e quelli dell’integrazione “senza se e senza ma” della Boldrini rispondono con sicurezza come due chiassose tifoserie, tanto concentrati su una parte della realtà da ignorarne pervicacemente l’altra.
Le cose tuttavia, con buona pace delle varie partigianerie, sono sempre più complesse. C’è Aylan e c’è Colonia, ci sono gli integralisti islamici del Bataclan e c’è l’illuminata Rania (qualcuno l’ha mai vista con un ḥijāb?). Il mondo, dopo la rivoluzione digitale, è diventato grande come un paesotto. Regole comuni stanno nascendo, altre ne nasceranno. Se un civilissimo cittadino UE vuole emigrare in Australia o negli Stati Uniti, deve affrontare un calvario burocratico che si conclude spesso in un netto diniego. Questo accade perché chi vuole trasferirsi non lo fa perché costretto dalla fame o perché la sua vita sia in pericolo, ma perché anela a un migliore tenore di vita. Mettere sullo stesso piano il migrante economico e il profugo è un errore grossolano, perché quello alla vita è un diritto universale, quello alla vita agiata no.
I teorici dell’accoglienza incondizionata sono peraltro talmente avulsi dalla realtà – o ebbri di ideologia – da non realizzare quanto questa politica non solo sia insostenibile ma anche inefficace: aumentando l’offerta di lavoro inevitabilmente cala la domanda, cioè salari (e diritti) si contraggono, e ciò accade non solo per i migranti, ma anche per gli altri, con il non brillante risultato di scontentare tutti. D’altro canto, chi vuole fare di tutta l’erba un fascio (mai parola fu più azzeccata) e respingere ogni migrante, sta negando un diritto elementare ad altri esseri umani. Certo, non si può pretendere che il problema ricada unicamente sugli stati che si trovano sulle rotte migratorie mentre gli altri fanno finta di niente o, al massimo, tirano su un po’ di filo spinato, che non si sa mai. Se l’Europa è comunità prima ancora che Unione, tali responsabilità vanno condivise a tutti gli effetti, con princîpi razionali e norme applicate in maniera trasparente. Il migrante economico deve essere soggetto a regole ferree: ingressi calmierati sulla base delle esigenze dei singoli stati, controlli serrati, rimpatrio immediato dei clandestini.
Diverso il caso dei profughi aventi diritto di asilo, per i quali l’impegno deve essere comune e trasparente. E, visti i recenti fatti di cronaca, magari affidato a un ente sovranazionale.
Polidori
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