G. Carofiglio, “Con i piedi nel fango. Conversazioni su politica e verità”

Gianrico Carofiglio, Con i piedi nel fango. Conversazioni su politica e verità, Ed. Gruppo Abete, Torino 2018, 109 pp. €11.

Il breve saggio si snoda, si parva licet componere magnis, come un dialogo socratico. nei panni del didaskalos Gianrico Carofiglio, già magistrato e senatore del Partito Democratico. Il tema centrale è la politica e il modo in cui essa si autorappresenta alle parti in causa. La trattazione è agile, la prosa distesa ma mai banale, i temi di interesse e attualità. Non mancano temi di interesse formista, dal principio di verità (tema centrale del saggio), a quello dell’exstasis (p.34) o della sympatheia (p.21).

Purtroppo, tuttavia, il libello non mantiene le promesse. Sia l’intervistatore che l’intervistato sono dichiaratamente non neutrali. Di più, l’autore sembra incarnare ogni possibile stereotipo dell’intellettuale di sinistra che si delizia ad ascoltare la propria voce dispensando qua e là giudizi morali, peraltro senza un apparente nesso logico tra le argomentazioni. La trattazione è frammentaria, segue un fiume carsico in cui si intrecciano con disinvoltura argomenti serissimi come la post verità e la psicologia delle masse, e luoghi comuni come il disprezzo dei governi tecnici e del loro presunto pedagogismo top-down. L’autore è talmente immerso in una cultura profondamente di sinistra che è costretto a scomodare il principio della saggezza tolteca “La tua parola sia impeccabile” dimenticando che molto prima un abbastanza noto predicatore della Galilea aveva detto “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno“ (Mt 5,7).

Il saggio non manca infine di una certa schizofrenia. Ad esempio, il nostro tuona contro la presunta “superiorità morale” degli intellettuali (p. 73), ma afferma che “il non voto è […] un errore e, a volte (come nel caso dell’America di Trump), un illecito morale”. Giudizi pesanti e gratuiti che scaturiscono dalla medesima autoattribuita superiorità morale poco prima stigmatizzata. L’autore afferma altresì che il vero modello di uomo di cultura sia costituito da colui che “semina dubbi invece di dispensare certezze“, modo elegante per autoescludersi da questa categoria, visto che solo alla pagina precedente aveva affermato “certamente Trump è l’emblema della decivilizzazione regressiva e di nefandezze ancora peggiori” (p.72).

In conclusione, l’autore, che pure non manca di intelligenza e senso delle cose, sembra troppo abbagliato dal suo autocompiacimento per poter proporre risposte agli interrogativi che solleva. Troppo ideologico il suo approccio, troppo disorganica e superficiale la sua narrazione, quasi mancasse il coraggio o la volontà di andare in fondo alle questioni.

(VP)

Lascia un commento